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Immagine del redattoreDCZ Penalisti Associati

Il cassetto fiscale non costituisce una valida prova a discolpa per i reati tributari.

Aggiornamento: 1 set 2020

Con una sentenza resa in fase cautelare, al Suprema Corte di Cassazione (Sez. III n. 23027 ud. 23/06/2020 – dep. del 29/07/2020) ha espresso un principio di diritto che, se confermato, potrebbe avere un significativo impatto sulle modalità di accertamento dei reati tributari.

La fattispecie.

Agli imputati è stato contestato il reato di indebita compensazione (art. 10 quater D.Lvo 74/2000) asseritamente commesso per il tramite di false compensazioni derivanti da investimenti in aree svantaggiate. Il corrispondente credito fiscale era stato inserito nei modelli F24 e quindi riportato in compensazione nel periodo fiscale di riferimento.

Il Pubblico Ministero, ritenendo tale compensazione del tutto priva di fondamento, non risultando mai effettuato alcun investimento da parte della società degli indagati in alcuna area svantaggiata, ha proceduto al sequestro “per equivalente” dei beni della società beneficiaria della compensazione, in vista della futura confisca.

La tesi difensiva.

Tra i vari argomenti sollevati dalla difesa, uno appariva avere particolare pregio giuridico: nel cassetto fiscale della società che avrebbe beneficiato dei suddetti crediti fiscali, non risultava essere registrata l’incriminata compensazione e il saldo complessivo indicava un debito fiscale.

In tal modo, dunque, mancherebbe completamente la prova dell’elemento costitutivo del reato contestato nonché presupposto per l’esecuzione del sequestro per equivalente finalizzato alla confisca.

La decisione.

Come noto il “cassetto fiscale” è quell’ambiente digitale nel quale è riportata la situazione complessiva del contribuente: si tratta insomma di un servizio che consente la consultazione delle informazioni fiscali, quali i dati anagrafici, le dichiarazioni fiscali, i rimborsi, i versamenti effettuati tramite modello F24 e F23, gli atti del registro (dati patrimoniali), i dati e informazioni relativi agli studi di settore e agli indicatori sintetici di affidabilità fiscale (Isa) e le informazioni sul proprio stato di iscrizione al Vies.

Il cassetto fiscale è tenuto e formato dall’amministrazione e il singolo contribuente può solamente consultarlo (fatta salva la possibilità di modificare alcuni dati anagrafici e personali).

L’affermazione difensiva, dunque, pareva dotata di una particolare capacità persuasiva.

Se la compensazione non risulta all’amministrazione e dal cassetto fiscale emerge solo l’esistenza di un debito fiscale, allora il reato non è stato commesso.

La Corte, però, non ha avvalorato l’assunto difensivo, sia perché altri elementi investigativi sembravano confermare la sussistenza del reato, ma anche alla luce di alcune argomentazioni di carattere processuale che, in questa sede, possiamo ignorare.

Ad ogni modo, la sentenza ha espresso il principio per il quale il delitto in questione si consuma con la “presentazione” del modello F24 e che, in presenza della prova di tale circostanza, le risultanze del cassetto fiscale non possono, di per sé, costituire un’evidenza opposta, così come già ritenuto dalla giurisprudenza tributaria.

L’eventuale mancato computo della compensazione e il conseguente aggiornamento del cassetto fiscale non rilevano perché sono fatti successivi alla commissione del reato. Ciò che rileva, nel rapporto tra Stato e contribuente, è la presentazione del modello di pagamento, mentre il cassetto fiscale ha una mera funzione ricognitiva.

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