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Il Whistleblowing e la sua natura scriminante

Aggiornamento: 21 apr 2023

Con pronuncia del 26 luglio 2018 n. 35792 la Suprema Corte ha definito un perimetro di legalità all’interno del quale può muoversi il lavoratore che ritiene di segnalare condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza nell’esercizio delle proprie funzioni.

Nel caso in esame l’imputato era un lavoratore pubblico che, per denunciare la vulnerabilità del sistema informatico, vi accedeva abusivamente utilizzando credenziali di altra dipendente, elaborava un falso documento di fine rapporto a nome di persona che mai aveva prestato servizio presso l’amministrazione e, immediatamente dopo la compilazione, lo cancellava.

La Corte di Appello, riformando la Sentenza di primo grado, dichiarava l’improcedibilità ai sensi dell’art. 131 bis c.p. del reato di cui all’art. 615 ter c.p. e non accoglibile, di conseguenza, la tesi difensiva secondo la quale la condotta del whistleblowersarebbe stata scriminata dall’adempimento di un dovere di cui all’art. 51 c.p.

La Corte di Cassazione, rigettando le doglianze del difensore, ha chiarito come il predetto istituto “si conforma strutturalmente all’art. 361 c.p. ma se ne distingue in riferimento ai presupposti e all’ambito di operatività”.

La normativa di riferimento in materia diWhistleblowing, a differenza del richiamato art. 361 c.p., è esclusivamente volta a scongiurare ripercussioni sfavorevoli in ambito lavorativo per il segnalante, non prevedendo né un obbligo di segnalazione né una autorizzazione allo svolgimento di autonoma attività investigativa che, per l’effetto, risulterebbe del tutto illecita.

Quanto detto, poi, vale tanto per il lavoratore pubblico quanto per il dipendente di società privata per il quale, anche in questo caso, non sorge un dovere di segnalazione.

La disposizione di cui all’art. 2 co. 2 bis L. 179/2017, infatti, prevede obblighi solo ed esclusivamente in capo alla Società tenuta ad adottare un Modello Organizzativo con la predisposizione di uno o più canali che consentano ai soggetti apicali e ai sottoposti che lavorano nell’azienda di presentare, a tutela dell’integrità dell’ente, segnalazioni circostanziate di condotte illecite, fondate su elementi di fatto precisi e concordanti, o di violazioni del Modello di organizzazione e gestione dell’ente, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte; tali canali garantiscono la riservatezza dell’identità del segnalante nelle attività di gestione della segnalazione.

Ed allora, anche qui, la disciplina si sviluppa in ottica di tutela giuslavoristica del lavoratore segnalante, tutela esclusa, peraltro, in caso di “soffiata infedele” caratterizzata da dolo o colpa grave del whistleblower.

Ritengono i Giudici, tornando della sentenza in esame, come non potrebbe dirsi scusabile neanche l’errore del lavoratore riguardo l’esistenza di un dovere in tal senso, escludendo, così, una ipotetica rilevanza della forma putativa della scriminante.

Il richiamo, allora, fonda sui medesimi principi operanti in tema del c.d. agente provocatore, laddove viene giustificata solo e soltanto una condotta che non si inserisca causalmente nell’iter crimins,che si ponga cioè in posizione del tutto marginale, risolvendosi, quindi, in una attività di osservazione, di controllo e di contenimento delle condotte illecite altrui.

Ne deriva che il whistleblowing non può rappresentare una patente di liceità, essendo preminente, sempre e comunque, il rispetto dei principi cardine previsti dall’ordinamento; ragione per cui, seppure rientrante nell’alveo dei fatti di particolare tenuità, l’accesso abusivo al sistema informatico pretestuosamente operato dall’imputato non perderà il suo carattere di antigiuridicità.

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