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  • Immagine del redattoreDCZ Penalisti Associati

Il contratto di cash pooling al vaglio della Corte di Cassazione Penale

La cassazione è un po’ sospettosa verso le nuove forme contrattuali nei rapporti di gruppo societari, ma nessuna chiusura verso il c.d. “cash pooling”. Resta il rischio della bancarotta fraudolenta?


L’accordo di cash pooling consiste nell’accentrare in un unico soggetto la gestione finanziaria delle società del gruppo. Gli scopi sono molteplici: perseguire una più accorta gestione della liquidità, controllare e diminuire i costi bancari, ottimizzare i rapporti economici e finanziari tra le società del gruppo, tanto per fare qualche esempio.


Il pooler, cioè il soggetto cui è demandata la gestione del conto corrente bancario unitario (di solito la capogruppo), accentra tutti i rapporti finanziari delle società del gruppo, generando così una complessa serie di rapporti di credito/debito verso ciascun soggetto che si fonda sul meccanismo delle compensazioni reciproche. È, insomma, una forma atipica di contratto di conto corrente.


Se i vantaggi economici sono evidenti, non si può escludere che questo rapporto contrattuale possa originare problematiche anche di natura penale. Come detto, la finalità principale del contratto è quella di accentrare la tesoreria del gruppo societario e, ove previsto, gestire i rapporti di debito\credito tra le varie società mediante il meccanismo della compensazione, nel solco del contratto di conto corrente non bancario.


Attraverso la gestione della tesoreria perciò è possibile compensare, seppur temporaneamente, le carenze di liquidità di alcuni soggetti del gruppo con le disponibilità degli altri, al fine di evitare o ridurre il ricorso all'indebitamento bancario.


Il saldo attivo di un soggetto, insomma, è utilizzato per compensare quello passivo di un altro soggetto, in tal modo neutralizzando gli effetti negativi degli interessi passivi. Così facendo, anche se in via collaterale, si genera un rapporto di finanziamento tra diversi soggetti.


Quindi, la società che “presta” il proprio denaro (per evitare che l’altro soggetto paghi interessi passivi) si assume un rischio e si priva di risorse (anche se solo per un limitato periodo di tempo) senza un diretto e immediato vantaggio, ma nel superiore interesse del gruppo societario.


A quali condizioni questo meccanismo è lecito? Si tratta di un depauperamento giustificato dagli interessi compensativi?


La giurisprudenza italiana è molto cauta nel riconoscimento dei c.d. vantaggi compensativi infra gruppo, soprattutto nel caso in cui sia seguito il fallimento della società che ha reso prestazioni a favore delle altre imprese. I vantaggi compensativi, infatti, sono utilità meramente potenziali e indirette, che esplicano cioè i loro effetti sull’economia dell’ente che li rende solo in via mediata, attraverso il beneficio collettivo del gruppo societario.


La Suprema Corte ritiene che per invocare l’esistenza dei vantaggi compensativi non sia sufficiente allegare la mera partecipazione ad un gruppo societario, ovvero l'esistenza di un vantaggio per la società controllante, dovendo, invece, l'interessato dimostrare il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell'interesse del gruppo, elemento indispensabile per considerare lecita l'operazione temporaneamente svantaggiosa per la società depauperata.


Una recente decisione della Corte di Cassazione (Cassazione penale sez. V, 5/04/2018 n. 34457) ha affrontato per la prima volta il tema della legittimità del cash pooling, osservando come la non corretta gestione di questo tipo di contratto potrebbe rilevare ai fini della bancarotta fraudolenta o di quella preferenziale.


Il cash pooling potrebbe costituire una forma di distrazione delle risorse della società fallita. Perché ciò non avvenga è indispensabile “deliberare il contenuto dell'accordo di cash pooling nei rispettivi Consigli di amministrazione, definendone in particolare l'oggetto, la durata, i limiti di indebitamento, le aliquote relative agli interessi attivi e passivi e le commissioni applicabili. Quindi, tali clausole devono essere formalizzate in un contratto di conto corrente intersocietario tra le società del gruppo e la società incaricata di gestire la tesoreria, in cui le società conferiscono mandato al pooler o pool leader - per la gestione della tesoreria del gruppo; la società capogruppo a sua volta, stipula un contratto con un istituto di credito, ovvero un pool account, su cui andranno a confluire tutti i movimenti che interessano le posizioni di conto corrente delle singole società. In base, poi, ai singoli contratti di conto corrente non bancario stipulati dalla società pooler con le società del gruppo, con cadenza predeterminata i saldi attivi e passivi dei singoli conti, facenti capo alle singole società, vengono trasferiti sul pool account della capogruppo o pooler.”


Insomma, è necessario che vi sia una puntuale e minuta regolamentazione del contratto per evitare contestazioni di carattere penale (nel caso di specie la Cassazione ha escluso che le operazioni incriminate potessero essere ricondotte nell’alveo del contratto di cash pooling, proprio per la carenza di regolamentazione contrattuale).


La motivazione della sentenza rivela (ma non è la prima volta) la diffidenza della Cassazione rispetto ai contratti innominati, dietro i quali si teme possano celarsi manovre depauperanti o distrattive. Non è una chiusura verso questo tipo di contratto, ma i paletti imposti sono rigidi.

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