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  • Immagine del redattoreDCZ Penalisti Associati

I beni del fallimento non sono qualificabili come beni della persona estranea al reato

La Terza Sezione penale della corte di Cassazione, con sentenza n. 30605 del 3 agosto 2022, si è pronunciata in merito alla legittimità di un sequestro preventivo, finalizzato alla successiva confisca, del profitto di reati tributari rintracciato su conti correnti di una società dichiarata fallita.

Avverso tale provvedimento ricorreva il curatore fallimentare che lamentava, in primo luogo la totale estraneità della curatela rispetto ai delitti contestati e l’impossibilità di qualificare le somme sequestrate come profitto del reato tributario, trattandosi di danaro confluito sui conti dell’impresa dopo la consumazione delle fattispecie ipotizzate.

Osservava inoltre come le somme presenti sui rapporti di conto corrente dovessero essere considerate, secondo la dottrina e la giurisprudenza civilistica, di proprietà del titolare del conto, rappresentato nel caso in esame dal curatore fallimentare, persona estranea al reato e subentrata all’imprenditore fallito nella gestione dei rapporti finanziari.

Il sequestro probatorio così disposto, dunque, ledeva irrimediabilmente i diritti dei creditori insinuati nella procedura, terzi estranei e in buona fede.

Quanto al primo motivo di ricorso, le Sezioni Unite avevano già chiarito (sentenza n. 42415 del 18.11.2021), che ogniqualvolta il prezzo o il profitto derivante dal reato risulti costituito da denaro “la confisca (e quindi anche il sequestro, n.d.a.) viene eseguita, in ragione della natura del bene, mediante l'ablazione del denaro, comunque rinvenuto nel patrimonio del soggetto, che rappresenti l'effettivo accrescimento patrimoniale monetario da quest'ultimo conseguito per effetto del reato; tale confisca deve essere qualificata come confisca diretta, e non per equivalente, e non è ostativa alla sua adozione l'allegazione o la prova dell'origine lecita del numerario oggetto di ablazione”.

Tale severa impostazione giurisprudenziale, ormai sedimentata, induceva il curatore a rinunciare al proprio primo motivo di ricorso.

Relativamente al secondo motivo, i giudici della suprema corte concludevano per l’infondatezza dell’impostazione difensiva rilevando – da un lato – che i beni del fallito, sebbene acquisiti alla procedura concorsuale, non potessero qualificarsi come beni appartenenti a persona estranea al reato e, dall’altro, che l’assoggettamento dell’imprenditore alla procedura fallimentare determinava la sola perdita della disponibilità – e non anche della titolarità - dei suoi beni.

Secondo questa impostazione, dunque, nel corso della procedura il curatore fallimentare diviene mero detentore dei beni dell’imprenditore cosicché i beni del fallito, pur quando acquisiti alla procedura fallimentare, non possono essere considerati come “beni appartenenti a persona estranea al reato”.

Nemmeno le pretese vantate dai singoli creditori sul patrimonio del soggetto insolvente possono considerarsi d’ostacolo all’apposizione del vincolo penale: i diritti acquisiti dal terzo in buona fede in grado di prevalere sulla confisca (e quindi anche sul sequestro preventivo) si identificano nel diritto di proprietà e negli altri diritti reali che gravano sui beni e non anche il semplice diritto di credito.

Analogo principio di diritto era già stato espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 11170 del 17 marzo 2015 in materia di responsabilità amministrativa degli Enti.

Non si può non rilevare come la pronuncia in esame si ponga in evidente contrasto con il diverso orientamento espresso dalla medesima sezione della Suprema Corte nella sentenza n. 47299 del 30 dicembre 2021 dove, in un caso del tutto simile a quello di cui trattasi, i giudici avevano riconosciuto in capo al curatore del fallimento una posizione di assoluta terzietà rispetto all’imprenditore fallito.

In quella occasione i giudici avevano inteso specificare come il diritto di proprietà del fallito sul suo patrimonio fosse “congelato per tutta la pendenza della procedura fallimentare”, in ragione del potere di gestione ed amministrazione conferito al curatore, ribadendo il principio secondo il quale “la peculiare natura dell’attivo fallimentare derivante dallo spossessamento del patrimonio della società dichiarata fallita è di ostacolo all’applicabilità del D.Lgs. n. 74/2000, art. 12 bis che individua, quale limite all’operatività della confisca, l’appartenenza dei beni che costituiscono il profitto il prezzo del reto a terzi estranei al reato, ne consegue che debba disporsi l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata che, incorrendo nella violazione dei suddetti canoni interpretativi, ha ritenuto che l’esecuzione del sequestro potesse cadere sui beni della curatela.”.

Il contrasto giurisprudenziale, qualora dovesse permanere, dovrà essere risolto dall’intervento delle sezioni unite della corte di cassazione.

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